Deduzione in cassazione della violazione del diritto alla prova

Ricorso per Cassazione

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Deduzione in cassazione della violazione del diritto alla prova
Nel caso in cui si intenda portare al vaglio cassatorio la doglianza secondo cui il giudice di merito non avrebbe permesso alla parte di provare, attraverso il ricorso a prove orali e alla CTU, sia l’”an” che il “quantum” della propria pretesa (ad es., in materia di risarcimento danni), lo strumento di ricorso appropriato è quello contenuto nell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
Segnatamente, il “vulnus” del diritto alla prova deve essere veicolato, in relazione, per l’appunto, al predetto n. 4, quale violazione dell’art. 115 c.p.c.
Se lo si deducesse, invece, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., e, quindi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., ci si esporrebbe al rischio di inammissibilità del motivo, per c.d. “vizio di sussunzione” (salvo il caso, beninteso, in cui dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile il vizio censurato – Sezioni Unite Sentenza n. 17931 del 24/07/2013 -, con conseguente vaglio preceduto da una qualificazione/sussunzione d’ufficio).
La violazione dell’art. 2697 cod. civ. infatti, sarebbe configurabile soltanto laddove il giudice avesse attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che, viceversa, ne doveva essere gravata, in base alle regole di scomposizione delle fattispecie, basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni.
Si è al cospetto di un sedimentato principio giurisprudenziale, icasticamente ribadito da Cass. 29.5.2018, n. 13395, la quale si segnala, altresì, per chiarire che, nell’ipotesi in cui oggetto di censura sia invece la valutazione, svolta dal giudice di merito, delle prove proposte dalle parti, tale doglianza sarebbe sindacabile, in sede di legittimità, esclusivamente negli “angusti” limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Ma, in quest’ultimo caso, il terreno diviene particolarmente scivoloso per il ricorrente, in quanto, spesso, una tale censura finisce per schermare, sotto la sua formale intestazione, profili di fatto che implicano una rivalutazione delle risultanze istruttorie, così sollecitando, in sede di legittimità, un (morfologicamente inammissibile) nuovo giudizio di merito, in contrapposizione a quello motivatamente formulato dalla Corte territoriale.

 

 

 

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